Sabato 4 giugno 2022, Ore 18
All’angolo di una strada Karl vide un cartellone con la scritta seguente: “Oggi, all’ippodromo di Clayton, dalle sei di mattina fino a mezzanotte si assume personale per il Teatro di Oklahoma! Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solo oggi, solo una volta! Chi perde l’occasione adesso, la perde per sempre! Chi pensa al suo avvenire è con noi! Chiunque è benvenuto! Chi vuole diventare artista, si presenti! Siamo il teatro che può impiegare chiunque, ognuno al suo posto! Ci congratuliamo fin d’ora con chi ha deciso di seguirci! Ma affrettatevi, per essere accettati entro mezzanotte! A mezzanotte si chiude per non aprire più! Al diavolo chi non ci crede! Venite tutti a Clayton!”
C’era molta gente davanti al cartellone, che però non sembrava incontrare molti consensi. C’erano troppi cartelloni, e ai cartelloni non crede più nessuno. E questo poi era ancora più inverosimile del solito.
La difficoltà di un discorso di presentazione sta nel fatto che vorrebbe riassumere un contesto generale, dare le coordinate minime per disegnare uno sfondo, giustificare la scelta (l’ennesimo blog?), trasmettere una tensione in bilico tra la passione dello slancio soggettivo e la certezza dell’esigenza oggettiva. E, con un sapore appassionato, dovrebbe fornire almeno qualche indicazione su chi sia il noi che inevitabilmente vi affiora. Ma soprattutto l’esigenza minima sarebbe che vi si respiri un tono felice, per quanto confuso. Una promessa e un invito.
Però è meglio chiarirsi subito: al cuore dell’esperimento c’è un vuoto. Tutt’intorno sta il gioco di desideri e disorientamenti che porta alla nascita di questo Teatro di Oklahoma. Come tante altre avventure collettive scritte o agite, anche questa prende corpo dal fondo in cui si mescolano un bel disprezzo per questo mondo – per il mondo così come è pensato, e organizzato, e vissuto anche da noi stessi – lo smarrimento non indifferente sulle strade da cui uscirne, un gusto per le storie e un amore per i gesti. Nulla di particolarmente nuovo. E’ lo stesso fondo a volte limpido e a volte, come di questi tempi, un po’ cupo, dal quale sorgono e si presentano decisioni, avvenimenti, salti. Durano quello che durano, moltissimo oppure un battito di ciglia e dopo spesso non ci sono più. O si re-inabissano, ad aspettare un’altra occasione in altra forma. Oklahoma è uno di loro, piccolo piccolo. Adesso gli tocca di uscire e nel marasma generale prendere anche lui parola, per quel che vale la sua voce e per il tempo che avrà in sorte. Dopo si vedrà.
Ma resta appunto quel vuoto. Non ci chiede nulla, naturalmente, ma resta lì ad infestare luoghi e stanze con il volto dei giorni in cui le cose, e noi con loro, continuano ad essere nello stesso insopportabile modo. Un vuoto con i bordi tutti rosicchiati dalle parole e gli atti che amiamo, di cui ci prendiamo cura, cui prendiamo parte, che sono la nostra carne il nostro sangue la nostra salute eccetera eccetera…ma pur sempre un vuoto. Che non verrà riempito da nulla di ciò che troverete qui dentro, anche perché i tempi non pongono nessuna domanda la cui risposta sia: Teatro di Oklahoma (sarebbe ben misera risposta). Però d’altra parte qui non scriveremo solo ciò che ci va. Non foss’altro perché in questo momento non ci sarebbe affettazione e ottusità peggiore che rivendicare uno sfogo individuale, nato da sé stesso e per sé stesso, e che non cerchi nessuna condivisione. Allora meglio mettere in comune la mancanza e la reazione ad essa, meglio provare in maniera un po’ goffa a schiarirsi la gola. Con tutte le forze che abbiamo sgomberare un posto qualsiasi dalle incrostazioni che vi si sono sedimentate ed esporlo a quanti più sguardi possibili.
Il Teatro di Oklahoma si annuncia con un cartellone ma non riscuote particolare attenzione, perché di cartelloni in giro ce n’è già fin troppi. È il capitolo conclusivo di America di Kafka, e non lo è, perché il libro non doveva finire così. Non si capisce se è un posto bello o inquietante, se è la fine delle sofferenze e delle peripezie del protagonista o l’ennesimo labirinto, un altro scherzo, un luogo mostruoso. Tutti ci possono trovare un posto, chiunque è benvenuto ma non si sa come e in che forma si riuscirà a stare assieme. È pieno di speranze e vi soffia una certa angoscia.
Sembra un nome adeguato.
Può essere interessante sapere chi per ora ne fa parte solo in quanto è qualcuno di esattamente uguale (di fatto o in potenza) a tutti gli altri: Studi o passioni più o meno coltivati, l’attraversamento di alcune esperienze collettive di lotta, di quelle che danno dei frammenti preziosi da portarsi dietro per provare a spargerli nei giorni futuri, le fatiche e le scocciature della routine quotidiana, una certa solitudine o fragilità riscontrabile nel volto di tutte le persone che capita di incontrare per strada. Ancora una volta, nulla di nuovo. I nomi non hanno importanza.
Ciò che conta è che in questo posto si è riusciti a fare abbastanza spazio perché adesso lo si possa riempire. Lasciandosi andare ad una previsione – del resto bisogna presentarsi – è possibile che qui la politica si nasconda nella cronaca e nel racconto, ricadendo – o forse innalzandosi – nello scherzo. Speriamo (faremo in modo) che ci siano cose da raccontare, cose da far arrivare da altre parti, cose da dire noi (ma noi chi?) e cose che ci diranno altri, che adesso non sono qui. Forse si inaugura un percorso che poi andrà ad intrecciarsi con eventi inaspettati, ed il futuro sconvolgerà i piani del presente. Parleremo tanto oppure poco. Di certo sarebbe bello che ci fosse spazio per il ricordo quando è vivo, per i brividi quando non sono sterili e le urla che non sono recita. E che scrivere e leggere non siano solamente modi per ingannare il tempo ma contributi a piegarlo. Ad ogni modo non sappiamo dove si arriva ma a mezzanotte il teatro chiude, e quindi bisognava cominciare. Allora, ecco la promessa e l’invito: al diavolo chi non ci crede.
All’angolo di una strada Karl vide un cartellone con la scritta seguente: “Oggi, all’ippodromo di Clayton, dalle sei di mattina fino a mezzanotte si assume personale per il Teatro di Oklahoma! Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solo oggi, solo una volta! Chi perde l’occasione adesso, la perde per sempre! Chi pensa al suo avvenire è con noi! Chiunque è benvenuto! Chi vuole diventare artista, si presenti! Siamo il teatro che può impiegare chiunque, ognuno al suo posto! Ci congratuliamo fin d’ora con chi ha deciso di seguirci! Ma affrettatevi, per essere accettati entro mezzanotte! A mezzanotte si chiude per non aprire più! Al diavolo chi non ci crede! Venite tutti a Clayton!”
C’era molta gente davanti al cartellone, che però non sembrava incontrare molti consensi. C’erano troppi cartelloni, e ai cartelloni non crede più nessuno. E questo poi era ancora più inverosimile del solito.
La difficoltà di un discorso di presentazione sta nel fatto che vorrebbe riassumere un contesto generale, dare le coordinate minime per disegnare uno sfondo, giustificare la scelta (l’ennesimo blog?), trasmettere una tensione in bilico tra la passione dello slancio soggettivo e la certezza dell’esigenza oggettiva. E, con un sapore appassionato, dovrebbe fornire almeno qualche indicazione su chi sia il noi che inevitabilmente vi affiora. Ma soprattutto l’esigenza minima sarebbe che vi si respiri un tono felice, per quanto confuso. Una promessa e un invito.
Però è meglio chiarirsi subito: al cuore dell’esperimento c’è un vuoto. Tutt’intorno sta il gioco di desideri e disorientamenti che porta alla nascita di questo Teatro di Oklahoma. Come tante altre avventure collettive scritte o agite, anche questa prende corpo dal fondo in cui si mescolano un bel disprezzo per questo mondo – per il mondo così come è pensato, e organizzato, e vissuto anche da noi stessi – lo smarrimento non indifferente sulle strade da cui uscirne, un gusto per le storie e un amore per i gesti. Nulla di particolarmente nuovo. E’ lo stesso fondo a volte limpido e a volte, come di questi tempi, un po’ cupo, dal quale sorgono e si presentano decisioni, avvenimenti, salti. Durano quello che durano, moltissimo oppure un battito di ciglia e dopo spesso non ci sono più. O si re-inabissano, ad aspettare un’altra occasione in altra forma. Oklahoma è uno di loro, piccolo piccolo. Adesso gli tocca di uscire e nel marasma generale prendere anche lui parola, per quel che vale la sua voce e per il tempo che avrà in sorte. Dopo si vedrà.
Ma resta appunto quel vuoto. Non ci chiede nulla, naturalmente, ma resta lì ad infestare luoghi e stanze con il volto dei giorni in cui le cose, e noi con loro, continuano ad essere nello stesso insopportabile modo. Un vuoto con i bordi tutti rosicchiati dalle parole e gli atti che amiamo, di cui ci prendiamo cura, cui prendiamo parte, che sono la nostra carne il nostro sangue la nostra salute eccetera eccetera…ma pur sempre un vuoto. Che non verrà riempito da nulla di ciò che troverete qui dentro, anche perché i tempi non pongono nessuna domanda la cui risposta sia: Teatro di Oklahoma (sarebbe ben misera risposta). Però d’altra parte qui non scriveremo solo ciò che ci va. Non foss’altro perché in questo momento non ci sarebbe affettazione e ottusità peggiore che rivendicare uno sfogo individuale, nato da sé stesso e per sé stesso, e che non cerchi nessuna condivisione. Allora meglio mettere in comune la mancanza e la reazione ad essa, meglio provare in maniera un po’ goffa a schiarirsi la gola. Con tutte le forze che abbiamo sgomberare un posto qualsiasi dalle incrostazioni che vi si sono sedimentate ed esporlo a quanti più sguardi possibili.
Il Teatro di Oklahoma si annuncia con un cartellone ma non riscuote particolare attenzione, perché di cartelloni in giro ce n’è già fin troppi. È il capitolo conclusivo di America di Kafka, e non lo è, perché il libro non doveva finire così. Non si capisce se è un posto bello o inquietante, se è la fine delle sofferenze e delle peripezie del protagonista o l’ennesimo labirinto, un altro scherzo, un luogo mostruoso. Tutti ci possono trovare un posto, chiunque è benvenuto ma non si sa come e in che forma si riuscirà a stare assieme. È pieno di speranze e vi soffia una certa angoscia.
Sembra un nome adeguato.
Può essere interessante sapere chi per ora ne fa parte solo in quanto è qualcuno di esattamente uguale (di fatto o in potenza) a tutti gli altri: Studi o passioni più o meno coltivati, l’attraversamento di alcune esperienze collettive di lotta, di quelle che danno dei frammenti preziosi da portarsi dietro per provare a spargerli nei giorni futuri, le fatiche e le scocciature della routine quotidiana, una certa solitudine o fragilità riscontrabile nel volto di tutte le persone che capita di incontrare per strada. Ancora una volta, nulla di nuovo. I nomi non hanno importanza.
Ciò che conta è che in questo posto si è riusciti a fare abbastanza spazio perché adesso lo si possa riempire. Lasciandosi andare ad una previsione – del resto bisogna presentarsi – è possibile che qui la politica si nasconda nella cronaca e nel racconto, ricadendo – o forse innalzandosi – nello scherzo. Speriamo (faremo in modo) che ci siano cose da raccontare, cose da far arrivare da altre parti, cose da dire noi (ma noi chi?) e cose che ci diranno altri, che adesso non sono qui. Forse si inaugura un percorso che poi andrà ad intrecciarsi con eventi inaspettati, ed il futuro sconvolgerà i piani del presente. Parleremo tanto oppure poco. Di certo sarebbe bello che ci fosse spazio per il ricordo quando è vivo, per i brividi quando non sono sterili e le urla che non sono recita. E che scrivere e leggere non siano solamente modi per ingannare il tempo ma contributi a piegarlo. Ad ogni modo non sappiamo dove si arriva ma a mezzanotte il teatro chiude, e quindi bisognava cominciare. Allora, ecco la promessa e l’invito: al diavolo chi non ci crede.